La chiusura del Centro Memoriale di Srebrenica, per la prima volta nella sua storia, rappresenta un segnale allarmante della crescente instabilità nei Balcani. Trent’anni fa, nella stessa regione, si consumava uno dei peggiori crimini contro l’umanità dopo la Seconda guerra mondiale: il genocidio di Srebrenica del luglio 1995, quando oltre 8.000 musulmani bosniaci furono sterminati dalle forze serbo-bosniache guidate da Ratko Mladić.

Quell’orrore non è solo un capitolo di storia: la Bosnia di oggi è ancora ostaggio delle stesse dinamiche etniche e politiche che portarono al massacro. La chiusura del Memoriale, situato in una zona a maggioranza serba, è il risultato della crescente tensione legata alle ambizioni separatiste della Republika Srpska e alle mosse del suo leader Milorad Dodik. Il clima attuale è così teso che il vicepresidente bosniaco Camil Durakovic ha chiesto ai musulmani dell’area di restare a casa, evocando il timore di una nuova ondata di violenza simile a quella del 1992.

Ieri: il genocidio di Srebrenica

Per comprendere la posta in gioco oggi, bisogna tornare indietro a quanto accadde negli anni ’90. Con lo sfaldamento della Jugoslavia, la Bosnia-Erzegovina dichiarò l’indipendenza nel 1992, ma ciò innescò una guerra sanguinosa tra le tre principali etnie: bosgnacchi (musulmani), serbi e croati.

I serbo-bosniaci, sostenuti dalla Serbia di Slobodan Milošević, cercarono di creare una Grande Serbia attraverso la “pulizia etnica”, ossia l’eliminazione forzata delle popolazioni non serbe dalle zone che volevano annettere. Il culmine di questa strategia fu Srebrenica, dichiarata “zona protetta” dall’ONU, ma abbandonata dai caschi blu olandesi quando le forze di Mladić vi entrarono il 11 luglio 1995. Gli uomini furono separati dalle donne e dai bambini, portati nei boschi e giustiziati in massa.

La comunità internazionale reagì tardi e male, e la guerra finì solo con gli Accordi di Dayton del 1995, che divisero la Bosnia in due entità: la Federazione di Bosnia ed Erzegovina (a maggioranza bosgnacca e croata) e la Republika Srpska (a maggioranza serba), con un governo centrale debole e instabile.

Oggi: la destabilizzazione della Bosnia

Oggi, il nazionalismo serbo-bosniaco è tornato a farsi aggressivo. Milorad Dodik, presidente della Republika Srpska, è il principale artefice della nuova crisi: la sua recente condanna per abuso d’ufficio e il suo tentativo di minare l’autorità dello Stato centrale bosniaco stanno creando una situazione sempre più esplosiva.

Dodik ha spinto per una legge che nega l’autorità del governo di Sarajevo sulla Republika Srpska, promuovendo di fatto un’uscita unilaterale dalla Bosnia. Questo atto è stato sospeso dalla Corte Costituzionale bosniaca, ma Dodik ha già dichiarato che non rispetterà la decisione, incassando il sostegno della Russia di Vladimir Putin, che da tempo cerca di destabilizzare i Balcani per indebolire l’influenza dell’Unione Europea e della NATO nella regione.

La situazione è così grave che l’Unione Europea ha annunciato un aumento della presenza militare con la missione EUFOR/Operazione Althea, che conta anche su soldati italiani. Un chiaro segnale di preoccupazione per il rischio di nuove violenze etniche.

Il ruolo dei cristiani serbi e la continuità dell’odio

Un aspetto doloroso di questa vicenda è il ruolo dei cristiani serbo-ortodossi, che trent’anni fa furono protagonisti di una delle pagine più oscure della storia europea. Il genocidio di Srebrenica fu perpetrato in nome di un nazionalismo che si richiamava alla Chiesa ortodossa serba, la quale, invece di contrastare la violenza, spesso la giustificò o rimase in silenzio.

Ancora oggi, in Serbia e nella Republika Srpska, il genocidio di Srebrenica viene negato o minimizzato, mentre criminali di guerra come Ratko Mladić e Radovan Karadžić sono celebrati come eroi nazionali. Questa distorsione storica è una delle radici profonde del conflitto attuale.

Il pericolo di un nuovo conflitto

La Bosnia-Erzegovina è oggi un paese diviso e fragile, e la situazione potrebbe precipitare rapidamente. Se la comunità internazionale non interviene con fermezza, la tensione potrebbe degenerare in scontri violenti.

L’Europa e gli Stati Uniti hanno imparato la lezione di Srebrenica? O si ripeteranno gli stessi errori di trent’anni fa, quando l’inerzia e l’ignavia permisero il genocidio?

Se la chiusura del Memoriale di Srebrenica oggi ci dice qualcosa, è che l’ombra della guerra non è mai veramente scomparsa dai Balcani. E il rischio di un nuovo incubo è più reale di quanto si voglia ammettere.