Un’analisi bioetica sulla nuova legge regionale

La Toscana è diventata la prima regione italiana a regolamentare il suicidio medicalmente assistito, stabilendo tempi e procedure per la somministrazione dei farmaci letali ai pazienti che ne facciano richiesta. La norma, sostenuta dall’Associazione Luca Coscioni e approvata con il voto favorevole di Partito Democratico, Italia Viva e Movimento 5 Stelle, si ispira alla sentenza 242/2019 della Corte Costituzionale, che ha aperto alla possibilità di depenalizzazione dell’aiuto al suicidio in presenza di determinate condizioni. Tuttavia, al di là del dato giuridico, questa legge apre scenari bioetici ed antropologici inquietanti.

Da bioeticista, non posso non interrogarmi sulle implicazioni morali, sociali e sanitarie di questa decisione. Se da un lato viene presentata come una legge di civiltà, dall’altro si inserisce in un panorama più ampio in cui il diritto a morire rischia di prevalere sulla cultura della cura e della solidarietà.

Il principio della dignità umana: chi decide il valore della vita?

Nella bioetica cattolica, la dignità della persona non è mai subordinata alla qualità della vita percepita o alla presenza della sofferenza. Il valore della vita è intrinseco, non determinato da condizioni esterne, dalla produttività o dal grado di autonomia.

La legge toscana prevede che il suicidio assistito sia riservato a pazienti che:

1. Sono affetti da malattia terminale.

2. Soffrono in modo insopportabile.

3. Dipendono da trattamenti per la sopravvivenza.

4. Mantengono la piena capacità di autodeterminazione.

Ma questi criteri non rispondono alla domanda più profonda: quando una vita smette di essere degna? Il rischio è che il concetto di dignità umana venga confuso con l’autonomia individuale, riducendo la vita a un bene disponibile, qualcosa che si può accettare o rifiutare in base alle circostanze.

La bioetica cattolica, invece, propone un paradigma diverso: la vera dignità si realizza nel sostegno, nella cura e nella relazione umana, non nell’eliminazione della sofferenza attraverso la morte.

Il rischio della “cultura dello scarto” e della pressione sociale

Papa Francesco ha più volte messo in guardia contro la “cultura dello scarto”, che porta la società a emarginare i più deboli e a considerare la loro vita meno meritevole di protezione. Il suicidio assistito, se presentato come un “diritto”, può facilmente trasformarsi in una pressione, anche implicita, sui più fragili.

Già oggi, in molti paesi in cui è stato legalizzato, il suicidio assistito viene offerto a pazienti con disabilità, malattie psichiatriche e persino a persone semplicemente depresse. Il pericolo è che chi è malato, anziano o non più autosufficiente inizi a percepire il proprio esistere come un peso per la famiglia e per la società. Il fatto che la Regione Toscana abbia stabilito che il costo del farmaco letale (35 euro) sarà a suo carico e che le commissioni mediche lavoreranno gratuitamente, mentre le cure palliative rimangono sottofinanziate, dice molto sulle priorità politiche ed etiche di questo provvedimento.

La vera domanda è: quanto è libera la scelta di chi vive in una condizione di vulnerabilità estrema? Quando lo Stato offre come soluzione più rapida ed economica la morte anziché un’assistenza adeguata, la decisione di porre fine alla propria vita diventa davvero volontaria?

La medicina: curare o dare la morte?

L’etica medica tradizionale ha sempre visto il ruolo del medico come colui che cura e accompagna il paziente, non chi lo aiuta a morire. Il Giuramento di Ippocrate proibisce espressamente di somministrare sostanze letali ai pazienti. La legge toscana impone la presenza di medici, infermieri e psicologi per accertare la volontà del paziente e accompagnarlo nella fase di auto-somministrazione del farmaco letale.

Questo cambia radicalmente il ruolo della medicina: il medico non è più solo colui che allevia il dolore e combatte la malattia, ma diventa uno strumento che accompagna alla morte. Si tratta di una trasformazione antropologica profonda, che mina il rapporto di fiducia tra medico e paziente. Come può un paziente fidarsi di un sistema sanitario che, invece di curarlo, può proporre come soluzione la morte?

Inoltre, viene da chiedersi: perché la legge si impegna così tanto nel garantire il suicidio assistito, ma non altrettanto nell’assicurare cure palliative di qualità a tutti? La vera risposta alla sofferenza non è la morte, ma una medicina più umana e vicina al paziente.

Cure palliative: la vera alternativa dimenticata

La bioetica cattolica non si limita a dire “no” al suicidio assistito, ma propone una vera alternativa etica: le cure palliative. Si tratta di un approccio medico che non punta a prolungare inutilmente la vita con accanimento terapeutico, ma a garantire al paziente una qualità di vita dignitosa, alleviando il dolore e accompagnandolo fino alla fine con rispetto e amore.

La legge toscana, invece di investire in una rete palliativa capillare e accessibile a tutti, ha scelto la via più rapida e meno costosa: offrire la morte come soluzione alla sofferenza. Ma è davvero una conquista di civiltà? O piuttosto il segno di un fallimento sociale nel prendersi cura dei più fragili?

Una falsa idea di progresso

La legge della Toscana viene celebrata come un passo avanti nella civiltà, ma non tutto ciò che è legale è automaticamente giusto. La storia ci insegna che le derive bioetiche iniziano sempre con piccole aperture, per poi trasformarsi in una normalizzazione della morte assistita come soluzione preferibile al dolore e alla fragilità.

Se davvero vogliamo una società più umana, la strada non è quella di facilitare il suicidio assistito, ma di promuovere un’etica della cura, della solidarietà e della vicinanza. La dignità della persona non si misura dalla sua capacità di essere indipendente, ma dalla capacità della comunità di stargli accanto, rispettarlo e sostenerlo nel momento più difficile della vita.

Oggi si parla di “diritto a morire”, ma la vera sfida è riconoscere il diritto a vivere con dignità, senza sentirsi un peso e senza che lo Stato scelga la morte come risposta più comoda alla sofferenza.