Domenica 13 aprile, mentre milioni di cristiani celebravano la Domenica delle Palme, ricordando l’ingresso di Gesù a Gerusalemme tra le folle festanti, la città ucraina di Sumy è stata trasformata in un Golgota contemporaneo. Due missili balistici russi hanno colpito il centro cittadino, uccidendo almeno 34 persone e ferendone oltre 100, in un giorno che avrebbe dovuto essere di pace, raccoglimento e speranza. Tra le vittime, civili qualunque: bambini, pendolari, fedeli diretti in chiesa.
Una ferocia senza volto né coscienza. Le immagini arrivate da Sumy sono agghiaccianti: auto in fiamme, cadaveri coperti da teli d’alluminio, soccorritori che scavano tra le macerie di edifici devastati. Una strada ordinaria si è trasformata in un campo di morte. Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha definito l’attacco “un atto da feccia”, e non si può dargli torto. Ha implorato la comunità internazionale di non limitarsi a parole vuote: “Parlare non ha mai fermato missili e bombe balistici”.
Ha ragione. Perché la guerra in Ucraina non è più solo un conflitto tra Stati, ma un’aggressione sistemica, che prende di mira deliberatamente civili e luoghi simbolici. Colpire Sumy nel giorno della Domenica delle Palme è un atto che va oltre il calcolo militare. È una dichiarazione di cinismo assoluto. È il tentativo di uccidere la speranza.
Il mondo condanna, ma poi?
Le reazioni internazionali non si sono fatte attendere. Il presidente USA Donald Trump ha definito l’attacco “una cosa orribile” e “un errore”, senza però chiarire cosa intendesse con quest’ultima parola. L’ambiguità delle sue parole, mentre la sua amministrazione tiene colloqui diretti con la Russia, rischia di mandare un messaggio sbagliato: che si possa trattare con un aggressore anche mentre bombarda indiscriminatamente.
Il segretario di Stato Marco Rubio ha parlato di un “tragico promemoria” della necessità di porre fine alla guerra, e Zelensky lo ha colto al volo invitando Trump a visitare l’Ucraina per vedere con i suoi occhi “ospedali, chiese, bambini distrutti o morti”. Non è più il tempo della diplomazia cieca, né delle frasi generiche. Serve una posizione netta: la Russia va trattata per ciò che è – uno Stato aggressore che sta commettendo crimini di guerra.
L’attacco a Sumy ha scosso anche l’Europa. Emmanuel Macron ha parlato di “palese disprezzo per le vite umane e il diritto internazionale”, la premier italiana Giorgia Meloni ha definito l’attacco “codardo”, e il cancelliere tedesco Friedrich Merz ha usato parole chiare: “crimine di guerra, deliberato e intenzionale”.
Ma queste condanne verbali rischiano di essere vuote se non sono accompagnate da fatti: più sanzioni, più sostegno militare all’Ucraina, più isolamento internazionale della Russia. La proposta di alcune nazioni europee di inviare truppe a sostegno di un eventuale cessate il fuoco è un passo nella giusta direzione, ma intanto i missili continuano a cadere.
Sumy è solo l’ultimo nome di una lunga lista di città martoriate: Mariupol, Kharkiv, Bucha, Kryvi Rih. Lì, nove bambini sono morti pochi giorni fa. A Sumy, le vittime sono aumentate di ora in ora. Ventuno, poi trentaquattro. Otto gravi. E chi ha il coraggio di dire che tutto questo può rientrare in una “strategia di negoziazione”?
Putin non cerca la pace. Sta testando il mondo.
La visita dell’inviato statunitense Steve Witkoff a Mosca, due giorni prima dell’attacco, avrebbe dovuto aprire uno spiraglio. Invece, i missili l’hanno chiuso. Perché ogni volta che l’Occidente cerca un compromesso senza forza, la Russia risponde con violenza. Il messaggio è chiaro: non vuole un tavolo. Vuole l’Ucraina in ginocchio.
Sumy, che all’inizio della guerra era stata invasa e poi liberata, è oggi sotto crescente pressione. Mosca avanza da Kursk, conquista nuovi villaggi nel Donbass, e intanto cancella scuole, tribunali, università. È la guerra totale. E il tempo per fingere di non vederla è finito.
Il mondo è davanti a un bivio morale. Continuare a gestire questa guerra come un fastidio geopolitico da tamponare o riconoscere finalmente che ciò che è in gioco è l’ordine internazionale, il rispetto della vita umana, la dignità della libertà. In ballo non c’è solo il destino dell’Ucraina, ma il volto dell’umanità stessa.
Se i missili russi possono uccidere civili in un giorno di festa cristiana senza che ciò provochi una risposta immediata, forte, concreta, allora significa che la guerra ha già vinto una battaglia: quella contro la nostra coscienza.
Ma non è troppo tardi. Sumy grida. E il mondo non può più restare in silenzio.