Taiwan trema. Non per i missili cinesi, ma per l’incertezza strategica che si respira a Washington. Dopo il gelo nei rapporti con l’Ucraina e i segnali ambigui nei confronti della NATO, Taipei teme di essere la prossima “alleata sacrificabile” in nome del grande realismo geopolitico di Donald Trump. Il quale, nel suo secondo mandato, sembra oscillare tra la tentazione di un disgelo con Pechino e la necessità di rassicurare gli alleati asiatici.
La verità è che Trump non ha (ancora) voltato le spalle a Taiwan. Anzi, a giudicare da parole e atti formali, l’attuale amministrazione ha continuato a sostenere l’isola in linea con la tradizionale “ambiguità strategica” americana. Ma l’ambiguità oggi non basta più, perché il contesto è cambiato: la Cina non è più solo una sfida economica, ma una minaccia militare diretta, come dimostrano le recenti esercitazioni che hanno incluso un blocco navale simulato attorno all’isola.
Derek Grossman, analista della RAND Corporation, ha colto con precisione il nervo scoperto: Taipei si muove in uno stato di ansiosa attesa, offrendo concessioni preventive agli Stati Uniti per garantirsi protezione. Non solo il 3% del PIL in spesa militare, ma anche investimenti strategici come i 100 miliardi di TSMC in Arizona per rafforzare l’interdipendenza. Un gesto che ha il sapore della diplomazia del silicio: non potete abbandonarci, perché siamo il vostro cuore tecnologico.
Eppure, nonostante le preoccupazioni, Trump ha mantenuto – almeno finora – un approccio pragmatico. Le sue dichiarazioni minacciose verso Pechino, le esercitazioni militari, le vendite di armi e persino la cancellazione della formula “One China” nei comunicati ufficiali del G7 lasciano intendere una linea di deterrenza effettiva, anche se mai pienamente esplicitata. Il segretario di Stato Marco Rubio e il segretario alla Difesa Pete Hegseth hanno ribadito la volontà di “stare al fianco di Taiwan”. Ma qui entra in gioco un paradosso strategico: più gli Stati Uniti parlano, meno Taipei si fida. Perché nel contesto di una guerra a bassa intensità globale, i segnali contano quanto le truppe.
Il problema principale è la coerenza. Se da un lato Washington autorizza il transito delle navi nello Stretto e stanzia fondi straordinari per la difesa di Taipei, dall’altro impone un dazio del 32% ai prodotti taiwanesi. Questo non è solo un errore tattico: è un messaggio distorto che mina la credibilità dell’impegno americano. Taiwan non può essere al tempo stesso partner strategico e avversario commerciale.
La lezione da trarre è semplice ma cruciale: nell’Asia del XXI secolo, la leadership non si misura solo con la forza militare, ma con la coerenza delle alleanze. Gli Stati Uniti rischiano di vedere erosa la fiducia degli alleati, non per debolezza, ma per incoerenza. E in uno scacchiere così fragile come il Pacifico occidentale, la fiducia è la prima linea di difesa.
Trump ha la possibilità storica di rafforzare la posizione americana nell’Indo-Pacifico senza cedere all’irresistibile tentazione del transazionalismo. Deve capire che Taiwan non è solo una pedina nella partita con Pechino: è il simbolo della resilienza democratica in Asia, il perno di un sistema regionale fondato su diritto, cooperazione e deterrenza.
Le mosse di oggi determineranno l’assetto di domani. E se Washington davvero vuole contenere l’ascesa cinese, deve iniziare con il garantire a Taiwan non solo sicurezza militare, ma anche rispetto politico e coerenza diplomatica. Altrimenti, anche le migliori alleanze possono collassare. Non con un’invasione, ma con un silenzio.