Dopo la condanna dell’episcopato ecuadoregno contro i criminali rivoltosi del Paese, ricostruiamo la genesi dei fatti che hanno determinato uno spostamento dell’asse di stoccaggio, raffinazione e distribuzione della cocaina dei cartelli messicani verso la Colombia. Per le enormi ricchezze iniettate nel Paese, il fenomeno ha generato violente e potenti bande criminali che controllando le prigioni-città, fanno il buono e cattivo tempo per ricattare il governo e ottenere un largo margine di manovra dopo il giro di vite del Presidente.
“Fate violenza, uccidete chi potete… sequestrate…” sono queste le parole d’ordine tambureggiate su tik tok e instagram dalle bande narco criminali dell’Ecuador.
Il presidente Daniel Noboa ha dichiarato “un conflitto armato interno” decretando il coprifuoco.
In un’intervista alla radio Canela mercoledì scorso, ha sottolineato che lo Stato sta affrontando “gruppi terroristici” composti da più di 20.000 persone.
“Non cederemo, non lasceremo che la società muoia lentamente”, ha aggiunto.
Stato di emergenza, però, significa posti di blocco, treni fermi, camion fermi.
Navi che non partono e alla fine milioni di dollari al giorno persi perché viene fermata qualsiasi attività, essendoci una pressione della polizia e dell’esercito.
Fino a qualche decennio fa la ricchezza dell’Ecuador risiedeva nelle banane. Oggi la risorsa è la cocaina.
La svolta avviene nel 2018, quando cartello messicano di Sinaloa comandato da El Chapo Guzman, che ha di fatto il monopolio del traffico di cocaina, decide di dislocare gran parte dello stoccaggio della coca in Ecuador perché sta sperimentando un un nuovo hub per gli invii verso il Nord America, ma soprattutto l’Europa e l’Asia.
La rotta del Pacifico è una rotta importantissima e la vogliono esplorare facendola partire dall’Ecuador.
Gran parte della coca partiva un tempo dal Venezuela, Stato fallito e con all’interno un cartello criminale completamente alleato al governo, il Cartello de Los Soles.
I venezuelani facevano sempre di più lievitare i prezzi per la distribuzione perdendo progressivamente il rapporto di collaborazione criminale con i cartelli messicani che, indispettiti, costruiscono un nuovo spazio in Ecuador.
Sinaloa a quel punto ha bisogno di stoccare le foglie di coca in un luogo tranquillo e sicuro.
Vengono ingaggiati i Los Choneros, cioè un gruppo di ragazzi che passava il tempo a bere, ubriacarsi e a drogarsi fumando.
L’accordo è semplice: stoccare coca per un milione a settimana, un milione di dollari a settimana!
Sinaloa si sente rassicurato.
Il secondo passaggio è la raffinazione che è sempre stata fatta in Colombia.
Le FARC colombiane, forze armate rivoluzionarie colombiane, si finanziavano con narcotraffico di cocaina, cacao e, in misura minore, con l’oro.
Anche i raffinatori fanno lievitare i prezzi e per i cartelli messicani non è più vantaggioso fare affari neanche con loro.
In Ecuador nascono quindi dei micro-cartelli che possono coltivare coca dove vogliono.
La produzione deve aumentare, nessuno più controlla, iniziano ad arrivare sempre più foglie di coca, fino a quando si decide di aprire le raffinerie.
I soldi raddoppiano dal milione a settimana e inizia a diventare due milioni a settimana, 2.5 milioni a settimana.
Il cartello cresce sempre più, stipendia sempre più persone, investe moltissimo nell’edilizia, nella raccolta dei rifiuti e in politica.
Los Choneros diventano di fatto i riferimenti del cartello di Sinaloa come hub per lo stoccaggio.
La raffinazione è un ulteriore grande cambiamento.
Dopo lo stoccaggio e la raffinazione rimane la spedizione.
Dopo un po’ di tempo riescono a infiltrarsi nei porti, ottenerne il controllo, e ad arrivare ovunque.
Le bande ecuadoriane, associate al cartello di Sinaloa e al cartello Jalisco Nueva Generación (CJNG), entrambi messicani, si infiltrano nello Stato corrompendo i capi di polizia, i generali, i giudici e i procuratori.
I suoi principali leader, dalle prigioni convertite in suite di lusso con bar e piscina, controllano le rotte della droga che portano agli Stati Uniti e ai principali porti e frontiere.
Hanno sul loro libro paga funzionari in posizioni chiave e, quelli che non lo sono, vivono con il rischio di essere uccisi.
La criminalità in Ecuador era diretta da un solo interlocutore che era Rasquiña, che ha scontato parte di una condanna per omicidio nella prigione di Guayaquil.
Rasquiña è uscito di prigione ed è stato ucciso nel dicembre 2020.
Con il trono vuoto, la disputa sulla leadership ha provocato massacri nelle carceri e fratturato i Los Choneros.
Quelli che non erano d’accordo con i nuovi leader, si sono separati e hanno formato nuove bande.
Da qui inizia un’esplosione di gruppi criminali che, secondo il governo, sono il fattore scatenante dell’attuale crisi di insicurezza che la nazione sta vivendo, che si sono formati nelle prigioni, luoghi di addestramento per il crimine.
Chi entra in prigione è costretto a scegliere una banda per sopravvivere all’interno.
Tra tutti i gruppi identificati dal governo, sembra che ci siano 20.000 criminali a tenere sotto scacco lo stato ecuadoriano in attacchi simultanei in tutto il paese e che hanno causato un’ondata di violenza senza precedenti.
La banda dei Lupi (Lobos) è quella che ha acquisito più potere negli ultimi tre anni.
A causa delle connessioni con il cartello Jalisco Nueva Generación, è riuscita a diversificare il suo portafoglio di crimini in campi come l’estrazione mineraria illegale.
L’attuale presidente dell’Ecuador, Daniel Noboa, assicura che non negozierà con i criminali che chiedono un dialogo.
Lo ha detto dopo che uno degli evasi nelle ultime rivolte carcerarie, Fabricio Colón Pico, un membro dei Lobos, è riapparso attraverso un video dicendo che potrebbe consegnarsi se lo Stato garantisse la sua vita.
Quanto all’Italia, il rapporto col narcotraffico ecuadoriano, per mediazione albanese e messicana, è strettissimo.
La maggior pare di cocaina sequestrata in Italia negli ultimi anni, nei porti di Livorno, Vado Ligure e in misura minore Gioia Tauro, proviene dall’Ecuador.
Dall’Ecuador provengono anche la maggior parte dei sequestri di persone chiamate “i muli” perché ingoiano o trasportano addosso coca.
Il loro volo non è mai diretto. Fanno degli scali per cercare di non insospettire. Partono dall’Ecuador, vanno prima in Perù, dal Perù al Messico, dal Messico in Spagna, dalla Spagna in Italia.
La cosa interessante è che prima dell’Italia come meta finale degli invii di coca dall’Ecuador, abbiamo l’Olanda, il Belgio, la Francia e la Spagna.
Spesso la coca che arriva in questi paesi transita per il porto di Rotterdam gestito dagli italiani o dai serbi o dalle mafie, somale e marocchine.
La porosità dei porti europei, soprattutto post-Covid, è davvero esponenziale.
La cocaina ha iniziato a tappeto a riempire l’Est Europa.
Un carico sequestrato nel 2022 era diretto alla Georgia e un altro carico più recente, nel maggio del 2023, era diretto in Armenia.
Si tratta sempre di narcotraffico ecuadoriano, ma bisognerebbe dire messicano.
Non che non l’abbiano fatto i cartelli precedenti, ma da dopo il conflitto russo ucraino, le porte del narcotraffico si sono spalancate.
Il mercato dei consumatori è quasi triplicato e le organizzazioni criminali hanno a disposizione una ingente quantità di denaro e forza di scambio negoziale anche col traffico di armi.
Mafie significa mercati dopati, imprese con concorrenza sleale, significa corruzione.
Significa manipolazione del consenso pubblico, significa distruzione delle regole democratiche.
È un problema che riguarda tutti e che anche l’Italia ha vissuto sotto certi aspetti nello scontro frontale con la Mafia degli anni Novanta.
La violenza non prevarrà”, è la speranza del segretario generale della Conferenza episcopale monsignor de la Torre che invita tutte le forze politiche e sociali a mettere da parte gli interessi particolari e a lavorare insieme per la Nazione.