La rielezione di Donald Trump sembra destinata a scuotere non solo l’establishment politico di Washington, ma l’intero sistema di potere americano. Trump non è semplicemente un candidato; rappresenta una “distruzione creativa” che mette in discussione le fondamenta stesse dell’autorità politica e istituzionale del Paese. Per i suoi sostenitori, la sua elezione simboleggia un voto di sfiducia nei confronti di una classe dirigente percepita come fallimentare. Per i suoi oppositori, invece, Trump è visto come una minaccia per la democrazia, una figura che sfida ogni convenzione e rispetto per le istituzioni.

La campagna di Trump del 2024 non è stata solo uno scontro contro un’avversaria, Kamala Harris, o contro un partito, quello democratico. È stata una battaglia tra Trump e l’intero sistema, un “cartello politico”, come viene definito, dove istituzioni e personalità che avrebbero dovuto essere in concorrenza fra loro si sono unite per difendere l’ordine esistente. Da Liz Cheney a figure dell’esercito come il generale Milley, passando per la comunità dell’intelligence e premi Nobel dell’economia, la coalizione di forze schierate contro Trump era davvero ampia. Eppure, ciò non è bastato a fermarlo.

Ma perché un leader che polarizza così tanto l’opinione pubblica riesce a tornare in scena con tale forza? La risposta va cercata nella crisi di legittimità che affligge le istituzioni americane, percepite da molti come distanti, inaccessibili e spesso corrotte. Trump è visto dai suoi sostenitori come l’incarnazione del rifiuto dell’autorità tradizionale e un simbolo di rivalsa contro élites ormai logore. Questi elettori non si riconoscono nei leader che, dalla fine della Guerra Fredda, hanno plasmato le istituzioni e le scelte politiche. Il ritorno di Trump è un messaggio forte: l’America ha fame di cambiamento, di una rottura con il passato.

La visione anti-establishment di Trump ha attirato figure diverse, dal controverso Robert F. Kennedy Jr. a Tulsi Gabbard, fino a Elon Musk e al podcaster Joe Rogan. Questi personaggi condividono un sentimento comune di sfiducia verso il “mainstream” politico e mediatico. La loro presenza nella campagna di Trump conferma un trend emergente di “politica alternativa” che si oppone alle logiche consolidate di Washington.

Dall’altra parte, i critici di Trump temono che questa “distruzione creativa” possa trasformarsi in un colpo fatale alla democrazia americana. Molti vedono nel suo stile “anti-wonk” — lontano dalle nozioni convenzionali di competenza e tecnocrazia — una minaccia per la stabilità delle istituzioni. Tuttavia, Trump non è il primo leader a cavalcare l’onda del malcontento popolare. Le sue idee, benché controverse, rappresentano un atto di accusa verso quelle stesse istituzioni che hanno supervisionato guerre disastrose, crisi economiche e disuguaglianze crescenti.

La storia insegna, però, che la “distruzione creativa” non sempre porta a cambiamenti duraturi e positivi. Le aziende che sfidano il mercato spesso falliscono poco dopo, lasciando il posto a concorrenti più strutturati. Allo stesso modo, Trump e il suo movimento dovranno dimostrare di poter costruire qualcosa di migliore rispetto a quanto distruggono. Se falliranno, il ciclo della politica americana produrrà inevitabilmente una nuova forza anti-establishment che sposterà di nuovo l’ago della bilancia.

Rimane il dubbio su quanto Trump possa realmente cambiare il sistema. Anche presidenti con mandati ampi, come Franklin Roosevelt, hanno trovato i limiti del loro potere e l’ostacolo rappresentato dalla Costituzione. Se Trump non riuscirà a cogliere l’opportunità di una leadership creativa e di un messaggio positivo, rischierà di essere ricordato come un distruttore più che come un costruttore.

La rielezione di Trump riflette una frattura profonda nell’America contemporanea. Da una parte, c’è la speranza di una trasformazione radicale; dall’altra, il timore che le fondamenta della democrazia vengano minate. Forse, ciò che questa elezione ha reso più evidente è che gli americani sono pronti a sfidare le convenzioni e, in un certo senso, a mettere in discussione lo stesso concetto di autorità. Ma, come ci insegna la politica, ogni distruzione ha un costo, e ogni cambiamento richiede anche una visione di costruzione.