Il 16 giugno 2015, quando Donald Trump scese dalla scala mobile dorata della Trump Tower e annunciò la sua candidatura alla presidenza, in molti risero. Sembrava un’operazione di marketing, uno show per aumentare la propria fama e un’occasione per promuovere il brand Trump. Nessuno avrebbe immaginato che sarebbe arrivato non solo a conquistare la Casa Bianca, ma a farlo due volte, dimostrando che la sua figura non era un’eccezione passeggera, ma parte di una tradizione radicata nella storia americana.

Oggi, con la sua riconferma, appare chiaro che il fenomeno Trump non sia un “errore di sistema” ma piuttosto la manifestazione di una corrente profonda della politica americana. Trump incarna l’insoddisfazione di milioni di americani, soprattutto bianchi, che si sentono emarginati e privati di un’identità in un Paese che percepiscono come “sottratto” dai cambiamenti sociali ed economici. Non è il primo a cavalcare quest’onda: la storia degli Stati Uniti è costellata di figure populiste, autoritarie, pronte a parlare alla “pancia” della nazione, intercettando un malessere collettivo che è spesso sottovalutato o ignorato.

La tradizione populista americana ha radici profonde, che risalgono alla metà del XX secolo. Negli anni ’30, il movimento “America First” attirava decine di migliaia di persone con messaggi antisemiti e pro-germanici, mentre radio-predicatori come padre Charles Coughlin diffondevano retoriche d’odio a un pubblico di milioni. Ancora negli anni ’60, il razzista George Wallace raggiungeva una percentuale sorprendente di voti nelle elezioni presidenziali, cavalcando il malcontento della popolazione del Sud. E il Ku Klux Klan, con i suoi crimini e le sue intimidazioni, è una delle ombre più scure della storia americana, una realtà che ancora oggi non è completamente scomparsa.

Donald Trump, pur non aderendo a questi estremismi espliciti, rievoca quelle stesse paure e risentimenti che caratterizzano il populismo di destra. I suoi sostenitori lo vedono come un difensore della “vera” America, un leader che può riportare il Paese a uno status che sentono di aver perso. La sua retorica, spesso divisiva e provocatoria, risuona con coloro che percepiscono una minaccia nel multiculturalismo, nella globalizzazione e nella modernizzazione della società americana.

Il successo di Trump mette in evidenza una crisi della democrazia americana che studiosi come Steven Levitsky, di Harvard, hanno analizzato attentamente. Levitsky e altri esperti avvertono che l’ascesa di Trump potrebbe portare a una rottura istituzionale senza precedenti. Il rischio non è Trump in sé, ma la legittimazione e la normalizzazione di un discorso autoritario, che erode la fiducia nelle istituzioni e legittima atteggiamenti discriminatori.

Le istituzioni americane, dalla giustizia al sistema mediatico, sembrano essere in una crisi di credibilità: una parte consistente della popolazione non vi ripone più fiducia. Trump e i suoi sostenitori sfruttano questo vuoto per giustificare una visione di un’America monolitica, dove i diritti e la diversità sono considerati ostacoli anziché ricchezze.

Questa corrente populista ed estremista ha radici secolari che non possono essere estirpate con la sola opposizione politica o una “resistenza” di breve durata. Serve una risposta complessa e strutturata che comprenda le cause profonde del malessere sociale: disuguaglianze economiche, sentimenti di abbandono nelle periferie, e un’identità culturale in crisi.

Trump è stato in grado di fare appello a questa America ferita e arrabbiata, ed è riuscito a vincere nonostante la contrarietà di buona parte dell’establishment. Il suo successo, però, pone una domanda essenziale: l’America riuscirà a riconciliare le sue anime, o resterà divisa e sempre più incline all’autoritarismo?

Trump è sintomo di una frattura che l’America non può ignorare, e la sua storia ci ricorda che senza una comprensione delle sue radici, questa corrente continuerà a riaffiorare.