Donald Trump ha costruito il suo personaggio pubblico su una miscela di aggressività, umiliazione pubblica e calcolo strategico. Venerdì, alla Casa Bianca, ha messo in scena l’ennesimo episodio del suo reality show personale, licenziando il presidente ucraino Volodymyr Zelensky con lo stesso disprezzo con cui, negli anni d’oro di The Apprentice, liquidava aspiranti imprenditori con un secco “You’re fired”.

Questa volta, però, non si trattava di un gioco. Trump ha teso una trappola perfetta a Zelensky, e il leader ucraino ci è caduto dentro senza possibilità di uscita. Convocato a Washington per firmare l’accordo sui minerali rari – la condizione imposta dagli Stati Uniti per rientrare almeno in parte dei miliardi di dollari versati a Kiev negli ultimi anni – il presidente ucraino si è ritrovato invece sotto processo, attaccato dal presidente americano e dal suo vicepresidente JD Vance, trattato come un ingrato che non sa riconoscere i propri benefattori.

Non era un incontro tra alleati. Era un’umiliazione pubblica, costruita per dare un segnale chiaro al mondo: l’America non è più dalla parte di Kiev. Zelensky è diventato il capro espiatorio perfetto per il disimpegno americano dalla guerra in Ucraina.

La scena dell’umiliazione

L’atmosfera nello Studio Ovale era tesa fin dall’inizio. Zelensky non era lì per chiedere altri aiuti, sapeva che il tempo delle richieste era finito. La sua missione era più semplice: garantire l’accesso americano alle risorse minerarie ucraine in cambio di un minimo di continuità nel supporto economico e strategico.

Ma Trump e Vance avevano altri piani. Il vicepresidente, sempre più in prima linea nel dettare la linea politica dell’amministrazione, ha sferrato il primo colpo: Zelensky non era abbastanza rispettoso nei confronti degli Stati Uniti, si comportava come se la Casa Bianca fosse la sua piattaforma di propaganda invece di una stanza in cui eseguire ordini.

Trump ha fatto il resto. Con il tono condiscendente e il sorriso beffardo che ha reso celebre, ha ricordato a Zelensky che “non sei davvero in una buona posizione in questo momento”. Se l’Ucraina voleva continuare a combattere, avrebbe dovuto farlo senza il sostegno degli Stati Uniti. La minaccia era esplicita: o si accettava qualsiasi accordo fosse sul tavolo, oppure Washington avrebbe voltato le spalle a Kiev.

Zelensky ha provato a resistere, a spiegare la posta in gioco, a chiedere che si considerassero i rischi di un ritiro americano per l’equilibrio globale. Ma non c’era spazio per discussioni. Trump ha chiuso la conversazione con un ultimatum, ha annullato la cerimonia di firma dell’accordo sui minerali e ha dichiarato, senza mezzi termini, che Zelensky non sarebbe stato più il benvenuto fino a quando non fosse stato pronto per la pace.

Poi, proprio come in una puntata del suo vecchio show, ha fatto scortare il leader ucraino fuori dalla Casa Bianca. La porta si è chiusa, le telecamere hanno immortalato l’uscita di un Zelensky cupo e impotente che saliva su un SUV nero e lasciava la scena. L’Ucraina era stata licenziata.

La trappola perfetta

Per Zelensky, è stato un colpo devastante. Era venuto a Washington con l’obiettivo di garantire un’ultima ancora di salvezza per il futuro economico e strategico dell’Ucraina, ma è stato invece trasformato in l’agnello sacrificale di una nuova fase della politica estera americana.

Trump non si è limitato a ridurre l’Ucraina a una pedina sacrificabile. Ha usato l’incontro per lanciare un segnale ai leader europei: chiunque voglia avere a che fare con gli Stati Uniti sotto la sua amministrazione deve accettare le nuove regole del gioco. Nessuna solidarietà automatica, nessun impegno ideologico. Solo affari.

L’obiettivo della Casa Bianca non era semplicemente interrompere il sostegno militare a Kiev, ma farlo nel modo più teatrale e definitivo possibile. Zelensky non solo è stato umiliato, ma è stato dipinto come un leader testardo, incapace di riconoscere la realtà, ostinato nel rifiutare una soluzione di pace che Washington ora considera inevitabile. Un messaggio chiaro a chiunque pensi che l’Ucraina possa ancora contare sugli Stati Uniti.

E adesso?

La strategia di Trump è ormai chiara. La priorità non è più fermare la Russia, ma ridefinire i rapporti con Mosca su nuove basi economiche e strategiche. L’accordo sui minerali rari, che avrebbe dovuto garantire un profitto alle aziende americane in cambio del ritiro del supporto militare, era solo un passaggio intermedio verso una nuova fase della politica americana, in cui la Russia non è più considerata un nemico, ma un potenziale partner.

Per Zelensky, il futuro si fa sempre più incerto. Tornato in Ucraina senza nulla in mano, dovrà affrontare una crescente pressione interna e internazionale per negoziare con Putin, anche alle condizioni peggiori. La Casa Bianca ha già deciso: la guerra deve finire, e l’Ucraina deve accettarlo.

L’Europa, per quanto possa provare a mantenere viva la resistenza di Kiev, non è in grado di compensare la perdita del sostegno americano. Berlino, Parigi e Roma possono inviare aiuti, ma senza il peso strategico di Washington, il destino dell’Ucraina è segnato. Zelensky ha combattuto per tre anni con il sostegno dell’Occidente. Ora è solo.

Il verdetto di Trump: sei fuori

L’incontro alla Casa Bianca è stato un teatro ben orchestrato, progettato per dare a Trump la scena che desiderava: un leader forte che non ha paura di licenziare chi non è all’altezza, proprio come faceva negli anni d’oro della TV. Zelensky è stato l’ultimo concorrente di un gioco più grande di lui, e alla fine è stato eliminato.

Solo che questa volta, la posta in gioco non era un contratto milionario, ma il futuro di un intero paese.