Donald Trump ha sempre avuto un talento innato per parlare alla pancia dell’America. Non quella idealista o progressista, ma quella impaurita, arrabbiata, stanca. Sa come accendere il fuoco sotto il disagio sociale e soffiare sul rancore per trasformarlo in consenso. Ma la storia insegna che chi cavalca la pancia di un popolo ne deve anche nutrire le speranze, altrimenti, prima o poi, quella stessa pancia si rivolta. E sembra che il momento stia arrivando.
Il giorno dopo il peggior crollo delle borse globali dai tempi del Covid, negli Stati Uniti sono scoppiate manifestazioni di piazza contro l’ex presidente Trump e il suo “vice ombra” Elon Musk. Non è più solo dissenso: è un grido di allarme nazionale. Oltre mille piazze da costa a costa, con una protesta simbolicamente unificata sotto lo slogan “Hands Off”: giù le mani dagli studenti, dai migranti, dalla sanità, dalle libertà fondamentali.
La pancia ora si sta svuotando, e il populismo di Trump – che tanto si nutre di retorica e spettacolo – si sta scontrando con il peso concreto delle sue scelte politiche ed economiche. I nuovi dazi generalizzati del 10%, scattati alla mezzanotte e un minuto su quasi tutte le merci in ingresso, sono un esempio emblematico: sembrano “punizioni agli altri”, ma ricadono in realtà sulle spalle dei consumatori americani. Mentre il Senato approva un budget con tagli alle tasse per i più ricchi, la classe media e le fasce più deboli vedranno aumentare i prezzi in modo drammatico.
Lo stesso segretario del Tesoro, Scott Bessent, uomo di fiducia di Trump, starebbe cercando di scappare dalla barca che affonda, puntando a un possibile riparo alla Federal Reserve. Segnale eloquente di un sistema che scricchiola dall’interno.
Ma a far più rumore delle cifre sono le immagini. A Bryant Park, a New York, i manifestanti indossano ancora il cappellino rosa della Women’s March del 2017. Sui cartelli, slogan che non chiedono semplicemente diritti, ma denunciano una deriva autoritaria che si sta consolidando sotto la maschera della libertà. Davanti alla sede dell’ICE a Washington, centinaia di scarpine vuote gridano il dolore per i bambini palestinesi uccisi a Gaza, in una chiara accusa al silenzio e alla complicità dell’amministrazione. E su tutto risuona il grido: “L’America non ha re – e non ne ha bisogno”.
Chi ha alimentato la rabbia, oggi deve confrontarsi con una nuova rabbia, nata non più dal sospetto, ma dalla realtà. Quella dei prezzi che salgono, dei diritti che si comprimono, della libertà di espressione che si riduce. Non basta più agitare lo spettro del nemico esterno o della presunta “élite radical chic”. Le contraddizioni sono interne, palpabili, esplosive.
Trump ha vinto parlando al cuore delle paure americane. Ma le paure non bastano a sfamare. Ora che la pancia è davvero vuota – nel senso letterale, economico, sociale – gli americani tornano in piazza, e con loro anche alcuni rappresentanti istituzionali, da Ilhan Omar a Jamie Raskin, fino al giovane Maxwell Frost, che ha parlato di “miliardari corrotti” e “corporation che credono di avere il diritto di controllare ogni aspetto della nostra vita”.
Non è solo protesta: è un inizio di consapevolezza. Una democrazia può reggere gli urti della demagogia, ma non può sopravvivere se rinuncia al principio di giustizia e all’equilibrio sociale. Quando un popolo si sente tradito, prima si ritira, poi si sveglia. E la protesta di questi giorni sembra dirci proprio questo: gli americani si stanno svegliando.