Considerato uno dei maggiori filosofi cattolici contemporanei, Hadjadj, di origine ebraica e convertitosi al cristianesimo dopo una giovinezza lontana dalla fede, rappresenta una voce che riesce a coniugare la fedeltà alla tradizione con uno sguardo innovativo e spesso destabilizzante.

Uno degli esempi più evidenti di questo approccio si trova nel suo libro Lupi travestiti da pecore, dove Hadjadj affronta il tema degli abusi nella Chiesa, non limitandosi agli episodi di violenza sessuale o all’abuso di minori, ma ampliando la riflessione alle dinamiche spirituali e strutturali che hanno consentito e sostenuto tali fenomeni. 

La ferita degli abusi: un dramma umano e divino

Hadjadj si accosta al tema degli abusi con un approccio che intreccia giudizio e misericordia. Egli sottolinea che il cristianesimo, nella sua essenza, non si limita a prendersi cura delle vittime, ma si rivolge anche ai peccatori, ricordando che l’unica vittima totale è Cristo stesso. Questo non significa giustificare i colpevoli, ma riconoscere che ogni abuso è un richiamo alla vigilanza e alla consapevolezza del proprio peccato. Hadjadj evoca Sant’Agostino, che parlava della verità come luce che illumina e accusa, invitando ciascuno a interrogarsi sul proprio contributo al bene o al male della comunità.

Questa visione non si limita a una prospettiva individuale, ma si estende a un’analisi critica delle strutture della Chiesa e delle sue dinamiche. Hadjadj non esita a denunciare un certo “professionismo spirituale” che, anziché essere una via di santità, si trasforma in un terreno fertile per l’abuso di potere e di fiducia. La sua analisi ricorda che Dio, nella Bibbia, costruisce spesso su fondamenta di “spazzatura”, trasformando il fallimento umano in occasione di redenzione.

La sfida della misericordia: vittime e colpevoli

Un punto centrale della riflessione di Hadjadj è la complessità del rapporto tra vittime e colpevoli. Egli critica la “religione vittimista” che, pur riconoscendo l’importanza di dare voce alle vittime, rischia di oscurare l’essenza del cristianesimo, che si rivolge anche ai peccatori. Hadjadj pone domande difficili: cosa fare con un sacerdote che ha commesso abusi ma i cui crimini sono prescritti? La Chiesa può limitarsi a una gestione mediatica del problema, o deve affrontarlo con una prospettiva pastorale più ampia?

Questa tensione riflette il dramma dell’amore cristiano, che non è mai una soluzione semplice, ma sempre un’avventura rischiosa. L’amore, sottolinea Hadjadj, espone alla vulnerabilità e al tradimento. Questa dimensione tragica, anziché essere evitata, deve essere abbracciata, riconoscendo che la fede cristiana è fondata sulla croce, il luogo del tradimento e della redenzione.

Un mondo dominato dall’emotività immediata

Hadjadj non si limita a riflettere sulla Chiesa, ma allarga il discorso alla società contemporanea, che definisce “di viscere” e “di impulsi”. In particolare, critica il ruolo dei social media nel favorire una cultura dell’immediatezza emotiva, che passa rapidamente dalla compassione allo sterminio. Questo fenomeno, che Hadjadj chiama “tecnocompassione”, si manifesta in molti ambiti, dalla bioetica (aborto, eutanasia) ai conflitti internazionali, come la guerra in Ucraina o le tensioni in Israele.

Un esempio emblematico è la reazione emotiva di fronte alle immagini della sofferenza nella Striscia di Gaza, che spesso sfocia in un rinnovato antisemitismo. Secondo Hadjadj, questa dinamica è sintomatica di una società incapace di comprendere la complessità delle situazioni, che cerca soluzioni immediate e drastiche senza affrontare le radici profonde dei problemi.

L’invito alla vigilanza e alla profondità

Di fronte a questo scenario, Hadjadj invita a riscoprire la pazienza e la profondità del cuore, contrapposte all’immediatezza della pancia. Egli richiama la necessità di un giudizio che non sia solo razionale, ma anche spirituale, capace di penetrare il male intrinseco delle situazioni senza cadere nella superficialità delle emozioni. Essere cristiani, sottolinea, significa prima di tutto interrogarsi su come essere veri testimoni di Cristo, riconoscendo le proprie responsabilità prima di giudicare gli altri.

Una Chiesa che rimane fragile e redenta

L’intera riflessione di Hadjadj si fonda sulla consapevolezza che la Chiesa, pur essendo il corpo di Cristo, rimane profondamente umana e quindi fragile. Gli abusi non sono solo una tragedia da condannare, ma anche una chiamata a una conversione più profonda, sia a livello personale che comunitario. Come sottolinea Hadjadj, la Bibbia stessa racconta storie di tradimento e redenzione, ricordandoci che la vera forza della fede cristiana non risiede nella perfezione dei suoi membri, ma nella grazia che trasforma il fallimento in salvezza.

In un tempo in cui la Chiesa è spesso vista come un’istituzione in crisi, la riflessione di Fabrice Hadjadj offre una prospettiva che, senza negare la gravità delle sue ferite, ne riafferma la vocazione a essere segno di contraddizione e strumento di redenzione. Una Chiesa che, pur tra le difficoltà, continua a testimoniare la speranza di un amore che, anche nel dramma, non viene mai meno.