Al rientro dalle vacanze, studenti e professori delle università italiane troveranno un panorama radicalmente mutato. Un mese fa, un decreto ha tagliato 513 milioni di euro di finanziamenti, colpendo duramente le spese non vincolate e suscitando proteste furibonde dalla Conferenza dei rettori (CRUI) e dal Consiglio universitario nazionale (CUN).

I tagli alle università arrivano in un momento già critico per il settore accademico italiano, da anni afflitto da un sottofinanziamento cronico. Il governo Draghi aveva tentato di stabilizzare la ricerca pubblica allo 0,75% del PIL, un obiettivo quasi raggiunto nel 2023 grazie ai finanziamenti straordinari del PNRR. Tuttavia, con la riduzione dei fondi, il sistema universitario rischia di regredire ulteriormente, aggravando il divario con altri paesi europei che investono significativamente di più in istruzione e ricerca.

Ma la vera bomba è il nuovo disegno di legge che ridefinisce le figure dei giovani ricercatori e dei docenti esterni. Invece di stabilizzare il precariato, il governo ha deciso di moltiplicare le forme di lavoro instabile, introducendo ruoli come assistenti di ricerca junior e senior, contrattisti post-doc e professori aggiunti. Questi ultimi, esperti esterni nominati direttamente dai rettori, potrebbero insegnare senza passare attraverso alcuna selezione pubblica.

Negli ultimi 15 anni, le politiche universitarie hanno enfatizzato il merito e la valutazione della qualità della ricerca. L’Abilitazione Scientifica Nazionale ha orientato le carriere dei ricercatori, imponendo standard rigorosi per l’accesso alle cattedre universitarie. Ora, sembra che tutto questo sia stato messo da parte. Le nuove forme di reclutamento bypassano i concorsi pubblici, lasciando spazio a nomine arbitrarie che minano la trasparenza e la meritocrazia.

Il risultato? Un’università meno finanziata e più gerarchizzata. I grandi atenei, premiati con fondi speciali, vedranno consolidare la loro posizione, mentre le università piccole e periferiche, già colpite dai tagli e dal calo delle iscrizioni, verranno ulteriormente penalizzate. Questo non farà altro che ampliare i divari interni al paese e ridurre gli spazi di mobilità sociale.

Senza un adeguato piano di nuovi concorsi, il rischio di svuotamento degli atenei è concreto. Tra il 2022 e il 2027, il 18% dei professori ordinari e associati andrà in pensione. Chi li sostituirà? I professori aggiunti scelti senza alcuna verifica delle loro competenze? La fuga dei cervelli, già una piaga per il sistema accademico italiano, rischia di intensificarsi. Già 15.000 giovani ricercatori hanno trovato opportunità all’estero nell’ultimo decennio, e questo numero potrebbe aumentare.

In autunno, il rischio è di ritrovarsi con un’università meno capace di far crescere le competenze dei giovani e più vulnerabile alle disuguaglianze. Questa riforma, nella sua attuale formulazione, sembra allontanare l’Italia dagli standard dei maggiori paesi europei, aggravando i divari interni e riducendo le possibilità di partecipazione sociale. È una riforma che, invece di promuovere l’eccellenza e la meritocrazia, rischia di instaurare un sistema accademico basato su nomine arbitrali e precariato diffuso. Un sistema che tradisce le aspettative di chi crede in un’istruzione superiore equa e di qualità.

In questo scenario, è fondamentale che la comunità accademica e la società civile facciano sentire la propria voce, chiedendo modifiche sostanziali al disegno di legge e un maggiore impegno finanziario per garantire un futuro sostenibile e meritocratico per le università italiane.